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VOCI SU MEDEA                                                                                                        

testo e regia di Gioacchino Palumbo                                                                          

liberamente tratto da Christa Wolf

uno spettacolo del Teatro del Molo 2

 

Con  Rossana Bonafede, Giovanni Calcagno, Giovanna Centamore, Rosario Minardi.

Musiche originali  composte ed eseguite dal vivo da Carlo Cattano.

Costumi a cura di Maria Grazia Pellegrino.

Scene a cura di Francesca Amato.

Luci di Franco Buzzanca.

Progetto scenico, elaborazione drammaturgica e regia di Gioacchino Palumbo.

 

Prima rappresentazione :

per il Teatro Stabile Biondo di Palermo

Villa San Cataldo di  Bagheria - Palermo - Giugno 2004 

 

Nella visione della scrittrice tedesca Christa Wolf, che prende spunto da Apollonio Rodio e altre fonti pre-euripidee, Medea non è né una barbara incline alla violenza irrazionale, né una fattucchiera, né un’ infanticida. Medea è qui una donna travagliata e generosa, detentrice di un sapere antico e profondo, legato al corpo e alla terra, e, come Cassandra, di un “secondo sguardo”.

L’ accusa di infanticidio si rivela allora una “cosmesi di stato” , il modo più efficace per sbarazzarsi di una donna pericolosa e indipendente, che ha scoperto l’ orribile segreto su cui si fonda il potere di Creonte a Corinto e si rifiuta di tacere.

Un ribaltamento del mito classico fondato su accurate indagini storiche e trasformate in racconto ed invenzione poetica.

La storia di Medea ci è raccontata, nello spettacolo, da quattro diverse voci, quattro personaggi che la narrano dal loro punto di vista, con le loro reazioni emotive e i loro segreti lancinanti. Ognuno di loro ci rivela aspetti nuovi di questa drammatica vicenda: le ragioni di stato e il cinismo di Acamante, primo consigliere di Creonte; la sofferta testimonianza di Glauce, ignara degli intrighi di corte e combattuta tra l’ obbedienza al padre e l’ affetto per Medea; i dubbi, le debolezze, l’attaccamento al potere di uno stanco Giasone; e la voce lucida, disperata e indomabile di Medea.

“Voci su Medea” può essere rappresentato, secondo la sua ideazione originaria, come uno spettacolo itinerante con quattro “luoghi scenici” . Gli spettatori, se il luogo lo consente, si spostano tra i quattro luoghi deputati  di ciascun personaggio, testimoni diretti delle loro rivelazioni, dei loro canti, delle loro azioni evocative.                                                                          

Il Teatro del Molo 2 realizza dal 1982 un progetto di ricerca teatrale sul mito greco, concretizzatosi nella messa in scena di una decina di produzioni tra i quali: Voci su Medea per il Teatro Biondo Stabile di Palermo, Fedra di Ritsos per l’ E.T.I. Ente teatrale Italiano al Teatro Libero di Palermo, Cassandra di Christa Wolf per il Teatro Stabile di Catania, Elektra di von Hofmannsthal per il Teatro Stabile di Catania, Fedra di Sarah Kane per l’ Ortigia Festival, Le mosche di Sartre per il Comune di Catania, Antigone di Sofocle al Teatro Musco, Scordare il ritorno di Palumbo per il Comune di Itaca (Grecia) e Acicastello, Il sogno di Clitennestra di Maraini allo Scenario Pubblico di Catania, Lisistrata per il Comune di Catania.

 

“Voci su Medea” da Christa Wolf /di Gioacchino Palumbo

 Note di drammaturgia e appunti di regia

 “Le cose non vanno come noi pensiamo …”

 La Wolf, nelle sue premesse e nelle sue dichiarazioni su Medea/voci, insiste molto sulla autenticità e sulla importanza delle fonti sul mito di Medea che precedono l’ opera di Euripide (431 a.c.) .

Da queste fonti, più antiche della tragedia di Euripide, si può dedurre un’ altra Medea, un’ altra leggenda. Medea non avrebbe ucciso i figli, ma avrebbe avvelenato Creonte. Poi, incapace di proteggere i figli dalla furia dei corinzi, nella speranza di salvarli, prima di fuggire, li lascia nel tempio di Era, affidandoli alla dea. Ma invano. I figli vengono scovati e lapidati dalla folla inferocita. E, a questo punto, anche per giustificare l’ epidemia di peste che infesta la città, Medea viene accusata ingiustamente di averli uccisi. 

In altri testi pre-euripidei si racconta di un inquietante rito magico, il katakruptein, attraverso il quale Medea tenta di garantire l’ immortalità ai figli. Prova che non voleva la loro morte. Secondo questa tradizione, probabilmente non ignota ad Euripide, la maga della Colchide uccide involontariamente i figli, per un’ errore durante il rituale che avrebbe dovuto renderli immortali..

Fondamentale per la conoscenza di queste fonti, per la Wolf, sono gli scritti di Margot Schmidt, i cui scritti su Medea l’ autrice tedesca ha chiesto di pubblicare, almeno in parte, anche nella edizione italiana del suo romanzo.

Letto in questa ottica Euripide, che “inventa” il mito di Medea come noi la conosciamo, avrebbe invece sancito una ulteriore condanna: oltre  all’ abbandono di Giasone, oltre all’esilio, oltre alla perdita dei figli, Medea avrebbe subito, per i secoli a venire, la più terribile delle infamie, quella di avere soppresso i propri figli.

Questa è d’ altronde la tesi di Parmenisco,  un grammatico alessandrino, secondo cui il grande tragediografo si sarebbe venduto per quaranta talenti. Come Giuda? 

Ma allora perché l’ adesione emotiva di Euripide al suo personaggio femminile, adesione che tanto inquieta gli spettatori di 25 secoli? Solo abilità psicologica e narrativa?

Difficile eludere una domanda: esiste un “mito” di Medea che prescinda da Euripide? Nella storia della cultura occidentale Medea è soprattutto la donna che uccide i figli per vendetta? E’ possibile scindere la sua immagine da questo aspetto della sua leggenda? O è, ormai, il suo fatto costitutivo ? Esisterebbe un “mito” di Medea senza l’ opera di Euripide ? Probabilmente Medea sarebbe un mito “minore” , poco noto, e non uno dei grandi miti della drammaturgia greca. Non sarebbe un mito da riabilitare.

Avevo sottovalutato, in Euripide, l’ importanza della apparizione di Egeo, a cui Medea chiede ospitalità per il suo esilio. Mi sembrava una scena drammaticamente debole, che allenta troppo la tensione emotiva. In realtà è un modo per rafforzare l’ idea del ghenos, del legame di sangue. Egeo, che è re e detiene il potere, a cui Giasone aspira, è disperato perché non puo’ avere figli. Farebbe qualsiasi cosa per averli, per avere una progenie.

Medea gli promette che lo aiuterà ad avere dei figli se la ospiterà dopo la sua fuga da Corinto.

Giasone la ha tradita e abbandonata per avere il regno e il potere, ma per questo, per mano di Medea, perderà i figli, il legame con la terra, con il futuro della stirpe.

Egeo ha già ciò che Giasone vuole, il trono, il potere. E non ha ciò che Giasone ha, ma che perderà per la efferata punizione di Medea.   

Può una donna saggia, una donna di conoscenza, una sacerdotessa,  arrivare a compiere un atto così spietato, l’ assassinio dei propri figli,  come le opere di Euripide, e dopo di lui di Seneca e di molti altri, ci raccontano?

E’ questa la domanda da cui muove Christa Wolf, il seme originario del suo romanzo.

Da un canto sono presenti forti valenze “ideologiche”. Medea è, per l’ autrice tedesca, la rappresentante di una cultura matriarcale,  in quanto tale non distruttrice. Ed è la cultura patriarcale dei corinzi, di Creonte, e dello stesso re Eete, il padre di Medea, che ha bisogno di distruggerla in nome della “ragione di stato”.

Medea è una guaritrice, una curatrice, e non una assassina, non una infanticida.

L’ etimologia del suo nome, med, in tutta l’ area indoeuropea rimanda alla stessa radice della parola latina “medicus”, colui che cura. Medea è colei che cura, “colei che porta consiglio”. Ma  “medeia” viene da “medestai”, che significa prendersi cura, e anche macchinare.. 

L’ impressione che si ricava dalla insistenza sulla scientificità delle sue fonti e delle tesi che ne conseguono, e della sua elaborazione letteraria, è che la Wolf , più ancora che rivedere e riscrivere una figura mitologica, voglia piuttosto, con la sua opera letteraria, ristabilire una verità storica, voglia cioè liberare una figura di donna, realmente esistita e vissuta nel lontano passato, dalle falsità e dalle idee distorte create su di lei dal mito, dal mito creato da Euripide.

L’ invenzione letteraria, nella Wolf, resta dominante.

In realtà anche in alcune  fonti letterarie e iconografiche anteriori al quinto secolo avanti Cristo la sacerdotessa della Colchide viene descritta come una donna pericolosa, che resta giovane sacrificando altre vite.

In altre tradizioni Medea non uccide i figli ma elimina Creonte, in altre ancora viene tramandato che  uccide Pelia.

Anche Christa Wolf  ha “manipolato” le suo fonti, prendendo spunto da quelle più vicine alla sua visione del personaggio, o forse utilizzandole a posteriori per rafforzare la validità del suo racconto .

Ma che importa, dopo tutto? Il personaggio di  questa Medea è toccante e credibile anche senza la sua pretesa verità storica e scientificità delle fonti.

Ciò che conta davvero è la forza espressiva del racconto, la drammaticità lucida e dolente delle sue parole.

La Wolf assolve Medea  da ogni colpa, ma al tempo stesso ci mostra un personaggio ormai inconciliabile sia con  la cultura da cui proviene sia dalla società in cui ha vissuto. Non c’è in questa visione un’ eco, o forse molto di più, delle esperienze vissute dalla autrice tedesca in quegli anni?

Forse è da questo che deriva l’ urgenza e il bisogno di ristabilire una “verità storica” a discapito della forza espressiva dell’ invenzione letteraria? Difficile non vedere un processo di identificazione e di proiezione, inevitabile forse in ogni autentico atto creativo.

In quegli anni Christa Wolf , dopo l’ unificazione delle due Germania e la caduta del Muro, era stata accusata di collaborare con la Stasi. Accusa gravissima per una intellettuale come lei, che era stata una delle figure simbolo della Germania Est, una sostenitrice dichiarata, se pur talvolta critica, del socialismo e delle sue speranze.  

All’inizio degli anni ’90, dopo la “liquidazione” della D.D.R. e l’ apertura degli archivi segreti della Stasi, il servizio segreto della Germania dell’ Est, la Wolf venne accusata di essere una collaboratrice, un agente segreto.

La polemica infuria in tutta Europa, anche su alcuni grandi quotidiani italiani. Era solo uno dei tasselli della politica di denigrazione della stampa occidentale nei confronti di molti intellettuali dell’ Est?

La scrittrice tedesca aveva anche risposto alle polemiche con un promemoria, un dossier, in cui sosteneva di non aver mai denunciato nessuno, di essere stata, in qualche modo, obbligata dalle circostanze a essere un “informatore” per alcuni anni, ma che la sua collaborazione fu giudicata così poco affidabile da essere considerata e schedata come una sovversiva e posta sotto controllo dagli stessi servizi segreti con cui collaborava.  

Ciò non le ha impedito, turbata dalle accuse,  di cadere in una fase di isolamento, di aridità creativa, di depressione.

La scrittura di “Medea/stimmen”, come la pittura per Frida Khalo, per l’ autrice è stata forse come una terapia. L’ urgenza espressiva che traspare, ben al di là delle motivazione ideologiche,  è molto toccante ed evidente.

E questa urgenza è probabilmente legata alle affinità tra le “ circostanze date” della Wolf, accusata di collaborazionismo, con quelle della “sua “ Medea, figura scomoda alla cultura dominante di Corinto.

 “ …poco a poco affiorò una figura che ebbe un nome ancora prima che la conoscessi, Medea, sta arrivando, ancora una volta assisto al prodigio di una apparizione, insperato, immeritato, tutto quanto immeritato – scrive l’ autrice tedesca – Medea che non ha ucciso i figli, l’ innocente, pensai felice e trionfante, allora non la conoscevo ancora o piuttosto pensavo in cuor mio di potermene servire come testimone, testimone a discarico, avrebbe dovuto insospettirmi che lei mi sfuggiva…”

E’ necessario far sentire questa urgenza espressiva in ogni parola della elaborazione drammaturgica e della messa in scena.

Nella elaborazione drammaturgica di “Cassandra”, sempre di Christa Wolf, in cui, nel romanzo, c’era una unica voce narrante, quella della profetessa troiana, avevo sdoppiato questa unica voce in due personaggi, quella della stessa Cassandra e quella della scrittrice/viaggiatrice, alter ego dell’ autrice, che alle porte di Micene evoca le vicende e la vita della prigioniera di Agamennone.

Questo sentimento di affinità tra autrice e protagonista del romanzo è presente anche nel tema del capro espiatorio. Medea è il capo espiatorio dei Corinzi. Viene espulsa prima da palazzo, ma mantiene comunque una sua orgogliosa vitalità e pericolosità. Pericolosità dovuta al fatto che ha scoperto che il potere di Creonte è basato sull’ assassinio di Ifinoe.  Quando scoppia la peste, è facile per la corte aizzarle contro la folla di corinzi, che lapideranno i suoi figli, consegnati invano nel tempio di Era.

Anche la Wolf si sente capro espiatorio di certa  stampa occidentale, che la accusa di connivenza con il regime della D.D.R.

In “L’altra Medea” la Wolf , con uno stile da diario intimo, privato, empatizza e quasi parla con Medea ,“quella maga” lontana nel tempo, vorrebbe essere riconosciuta, accettata, sembra aspettarsi da lei solidarietà per la sorte comune di non essere capite né nel paese dove sono cresciute  ( la Colchide e la D.D.R.)  né in quello dove adesso vivono ( Corinto e la Germania unificata),  di essere ingiustamente accusate, di essere personaggi scomodi.  

“… io, almeno di questo potrebbe dovermi darmi atto, l’ho capito subito che non aveva ucciso i figli e con mia grande soddisfazione ho scoperto nelle tradizioni più antiche che avevo visto giusto, non fu lei a uccidere i figli, ma i corinzi, perché non sopportavano più quella strega, quella maga..”

La presenza di Medea è ora quella di un personaggio letterario, ora quella di una persona autentica, come se fosse anche lei  un personaggio in cerca d’ autore

“…a questo punto non so neanche se lei, Medea, mi aspetta ancora, se con me avrà pazienza o se tornerà semplicemente a dissolversi svanendo nel nulla e nei drammi dei diversi poeti…

Già! Quanti poeti hanno tessuto la storia di Medea!

“…frattanto Eros per l’ aria tersa, invisibile, sconvolgente..subito tese nell’ atrio, presso la soglia, il suo arco..con entrambe le mani mirò dritto a Medea, calò sul suo cuore il silenzio.. simile a fiamma i suoi occhi brillavano e l’ altero cuore batteva impazzito nel petto, né aveva pensiero di altro, e struggeva il suo animo nel dolce tormento.. così guizzando avvampa il devastante Eros, e rendeva le tenere guance pallide prima, poi rosse, svelando l’ angoscia dell’ animo..  ” 

Apollonio: III libro delle Argonautiche

Appollonio Rodio la descrive all’ inizio come una giovane donna, esperta di arti magiche ma ancora fragile e indifesa. Nella sua terra, la Colchide, diventa vittima del dardo di Eros mandata da Era ed Afrodite, che hanno bisogno del suo aiuto per proteggere Giasone. Medea si innamora di lui appena lo vede. E’ li che inizia la sua trasformazione in maga fatale. Dapprima combattuta tra aidos e imeros, pudore e desiderio, la figlia del re Eeta si abbandona infine alla passione amorosa, tradisce il padre, è complice di Giasone nell’ uccisione del fratello Apsirto ( nel IV libro delle Argonautiche )

Omero, che racconta l’ impresa degli argonauti, non nomina mai Medea, Esiodo ricorda con un breve accenno la giovane donna “ dagli occhi sfavillanti” che divenne moglie dell’ eroe Giasone.

Medea appariva probabilmente anche in opere di Eschilo ( “ La nutrice di Dioniso”) e Sofocle (“Le donne della Colchide”, “Gli Sciti”, “Le raccoglitrici di Erbe”)  ma di queste tragedie ci  restano solo pochi frammenti, troppo pochi per ricostruire un’ immagine dei personaggi.

Ma l’ “inventore” della Medea che, pur straziata, dominata dall’ ira, uccide volontariamente i figli è sicuramente Euripide.

Perché Euripide le fa compiere un gesto così terribile? Il gesto che suggella il “mito” di Medea, la donna orgogliosa e gelosa ?

“ Nessuno creda che io sono una donna da nulla.. sono ben altro, una disgrazia per i miei nemici..” dice al coro, palesando il suo smisurato orgoglio, l’ authadeia, l’ arroganza, la protervia, la ubris .

E al momento del gesto fatale grida: “capisco quello che sto per fare.. ma la rabbia è più forte in me di ogni consiglio..” L’ ira di una donna gelosa.

La donna può essere remissiva  ma - rivela ancora Medea, dando voce alla sua gelosia -  “ ..se uno porta offesa al suo letto e le fa torto, non c’è cuore che sia più sanguinario.. è un torto da nulla questo, per una donna? ”

Nelle “ Heroides “ di Ovidio, scrivendo la sua accorata epistola a Giasone, 

lo sposo che la ha abbandonata, Medea rimpiange di averlo incontrato, rimpiange soprattutto di essersi fatta travolgere da una passione erotica totalizzante e devastante. Si pente di avere ucciso, per questa passione , il fratello Apsirto e il re Pelia. Si rende conto, con dolente e tardiva lucidità, che, malgrado la sua dedizione assoluta all’ eroe greco, per il quale ha abbandonato per sempre la sua amata Colchide, che questi non ha fatto altro che ingannarla e abbandonarla per un opportunismo meschino e senza scrupoli…

Una Medea umana, vinta, fiera, che anticipa alcuni tratti del personaggio della Wolf.

Anche la Medea di Grillparzer ( “Medea a Corinto”, ultima opera della trilogia “ Il vello d’ oro”,  opera permeata dalla poetica romantica) uccide i suoi figli, come in Euripide. Non li uccide per vendicarsi del tradimento di Giasone, ma per punire se stessa, per espiare la sua colpa, quella di aver tradito se stessa, per annullare la parte di sè che, attraverso i figli, sarebbe sopravvissuta.  

Grillparzer, da autore romantico, da spazio soprattutto ai sentimenti dell’eroina. Al contrario di Euripide, nel confronto fra le due culture, non vede alcuna superiorità nella razionalità greca, descritta piuttosto, come nella Wolf, come un cinico esercizio di potere fine a  se stesso.

“La lunga notte di Medea” di Alvaro, rappresentata nel 1949, fa di Medea un’ esule rifiutata e respinta dalla città che la ospita, una clandestina che vaga di paese in paese, una vittima senza scampo delle persecuzioni razziali, così tragicamente attuali in quegli anni.  

I doni che questa donna in perenne esilio invia a Glauce sono tentativi disperati per salvare se stessa e soprattutto i figli, e non regali malefici per uccidere la promessa sposa di Giasone, come nell’ opera di Euripide.

Ma l’ ira dei Corinzi divampa, la folla infuriata circonda la casa degli stranieri, degli esuli, della strega. Ed è per salvare i suoi figli dalla violenza inaudita dei corinzi che Medea li uccide prima che questi irrompano nella casa per farne scempio. Li sopprime quindi per pietà, per evitare loro un orrore più grande, una morte più atroce, e non per rabbia, o per gelosia, o per spirito di vendetta.

Questo è, nella mia elaborazione drammaturgica del romanzo di Christa Wolf, l’incipit del racconto di Medea, la quarta e ultima voce dello spettacolo:

“Come vorrei averti accanto, madre mia. Sono così stanca.

Sui palmi delle mie mani sento ancora la forma e il calore  del tuo capo, quando ti strinsi per l'ultima volta e le affondai nei tuoi capelli, là sulla riva, prima di lasciare per sempre te e la mia amata Colchide per imbarcarmi furtiva con Giasone,  che tu continuavi a chiamare "lo straniero".

Anche tu mi stringesti, con una forza che avevo dimenticato, posso sentire ancora la tua voce sussurrarmi in un orecchio: "non diventare come me" .

Io non dissi niente. Ti guardai girarti in silenzio e risalire lentamente, come a fatica, lo scosceso pendio verso il Palazzo. Non avevo scelta, lo sai, dovevo partire.

Come vorrei poter vedere, anche solo una volta', l' albero di carrubbo dalla finestra bassa della mia stanza di bambina.

Come vorrei  lasciarmi condurre per mano da te in fondo al cortile interno, fino al pozzo, e guardarti mentre tiri su il secchio di legno, e ascoltare l' eco delle gocce, e attingere l' acqua, e bere, e guarire.

Io sapevo che avrei avuto nostalgia della Colchide, dei suoi profumi, delle sue luci, dei profili irregolari dei monti iscritti dentro di me. Ma non mi aspettavo questa pena inestinguibile, che ora noi colchi, nel nostro esilio a Corinto, ci leggiamo negli occhi, e che mai si placa, nemmeno quando ci vediamo per cantare le nostre  canzoni.

Nessuno, madre mia, aveva seguito, come te, con la stessa invisibile  attenzione, gli avvenimenti che seguirono l' arrivo nella nostra terra di quegli stranieri, di Giasone e dei suoi uomini.

Solo noi due, io e te, madre, eravamo irrequieti. Conoscevamo la diffidenza del padre, Re Eete, per quegli stranieri. Sapevamo che Giasone voleva il Vello e che il re non voleva darglielo.

Ci bastava fiutare pochi segni per trarne cattivi presagi. 

Una Medea stanca, umanissima, pervasa dalla nostalgia inestinguibile  per la madre, per la sua terra, per la sua casa. Una Medea che si imbarca furtiva ma saluta e abbraccia teneramente la madre, che sa che la figlia deve partire, e non solo perché ama Giasone, ma soprattutto perché ha scoperto che il padre ha ucciso suo fratello Apsirto per mantenere il potere. Anche qui un ribaltamento del mito. Non è stata Medea, come in molte altre versioni del mito, ma il padre, il re Eete, a uccidere Apsirto, l’ amatissimo fratello:

 Le cose non vanno mai come noi pensiamo. Il padre si rese conto troppo tardi che per conservare il potere non aveva altra scelta che uccidere il figlio. Quel momento deve avergli insegnato l' orrore. Ma il padre scelse il potere. Apsirto fu ucciso da un gruppo di vecchie folli, fanatiche del vecchio re, mentre si trovava inerme nel suo bagno. Dicono che lo colpirono cantando le loro orribili canzoni.

 Quella morte ha cambiato la mia vita. Non potevo più vivere nella Colchide, ormai guastata  per sempre.

Fu quella la prima volta che l' idea che la mia vita abbia un termine mi apparve come un balsamo…

Io abbandonai la mia terra perchè  mi apparve edificata su quell' orribile misfatto, l' uccisione di Apsirto. Decisi di fuggire da mio padre, di fuggire via imbarcandomi con Giasone e i suoi uomini. 

E’ importante mantenere nella elaborazione teatrale la concretezza dei particolari presente nella scrittura del romanzo della Wolf. Certo la scrittura letteraria, rivolta alla lettura lenta e riflessiva di un lettore solitario, alla qualità di attenzione della pagina scritta, sprofonda più facilmente in questi dettagli così curati..

Si sente che la Wolf  “vede” ciò che scrive. E’ quello che ricordo sempre ai miei attori: vedi ciò che dici.

Questa concretezza e precisione ha sempre una venatura profondamente emozionale.

Forse questa precisione dell’ immagine è dovuta al fatto che, nell’ attualizzare i personaggi mitologici, la scrittrice tedesca spesso li correlava a figure del suo vissuto.

Alcuni critici hanno visto in Re Eete, il padre di Medea, la figura di Honecker, il presidente della D.D.R., e nel personaggio di Agameda, una delle sei voci narranti del romanzo, una donna della Colchide che tradisce per calcolo opportunistico la sua gente, i tratti di Monika Maron, una scrittrice profuga nella Germania Ovest con la connivenza dei servizi segreti della Stasi. La Wolf parla anche, nei suoi appunti, di aver immaginato  una figlia di Medea che diventa una estremista come Ulrike Meinhof....  

Mi chiedo quanta e quale influenza abbiano avuto le opere di due scrittrici tedesche contemporanee, Novak e Haas, ( di cui scrive la Rubino ) sul romanzo della Wolf.

Dapprima la poetessa Helga Novak che in “ Dialogo cittadino n. 1” , del 1972, e in “Lettera a Medea” del 1977, dipingono una Medea perseguitata come straniera, ma capace di difendere la sua autonomia intellettuale e la sua identità. E  soprattutto “Assoluzione per Medea”, un romanzo di Ursula Haas del 1987, che sicuramente fu conosciuto da Christa Wolf.

Traspare spesso, nel romanzo, il disincanto della scrittrice per un secolo che non ha saputo trasformare tanti slanci ideologici in benessere sociale e in felicità individuale e collettiva.

Chiari anche i rimandi al disagio della scrittrice ad adeguarsi alla vita sociale della Germania unita, come in questo brano rielaborato nella mia riscrittura:

A Corinto il valore di un uomo si misura dalla quantità di oro che possiede. Così ci spiegarono. Stentavamo a crederlo. Solo quando sono arrivata qui a Corinto mi sono resa conto che era vero. Sono ossessionati dal desiderio di questo metallo. E' così. Sono le nostre brame a conferire valore a un materiale. Adesso so che è così. Fu Acamante, il perfido consigliere del re, a spiegarmelo: la sola cosa in grado di rendere governabile la città era la divisione dei cittadini in ceti diversi, e che l' oro – così mi spiegò - era l' unità di misura per questa divisione.

Sul conflitto di culture come nodo tematico essenziale del mito insistono anche altre versioni contemporanee, come  quella di Jean Anouilh, che ci raffigura una “Medee” zingara (interpretata anche da Anna Magnani). Inguaribilmente straniera, non integrata, “diversa” è  pure la Medea nera di Hans H. Jahn, così come quella orientale di Lenormand.

Lo stesso film di Pasolini, con un taglio quasi antropologico,  sottolinea, più che gli aspetti psicologici e relazionali, le alterità culturali, le diversità ambientali. Rarissimi i dialoghi, pregnanti i silenzi, dominanti gli scenari. Le scene ambientate nella Colchide, ad esempio, vengono girate nei bellissimi e irripetibili paesaggi della Cappadocia, mentre le sequenze di Corinto hanno come sfondo le architetture bianchissime di Pisa, di Campo dei Miracoli in particolare.      

La Medea di Pasolini, interpretata da una indimenticabile Maria Callas, si impone con i suoi sguardi silenziosi e misteriosi. Ieratica ed arcaica, integrata in una cultura che pratica riti di fertilità che includono i sacrifici umani, non esita a “sacrificare”  il fratello Apsirto per propiziare la sua fuga con Giasone spargendo i suoi resti sul percorso e  le sue ceneri dalla prua della nave. Molto diversa dal personaggio della Wolf, definitiva, arcaica, pulsionale, legatissima ad una cultura “altra”, non omologata…

Mi colpisce molto la solitudine del personaggio in un’ altra versione cinematografica, quella di Lars Von Triers. Qui Medea è associata, sin dalla prima bellissima sequenza in cui Medea tenta invano di annegarsi, all’ elemento “acqua”  ( nella mia scrittura scenica è più associata al fuoco, il fuoco delle donne con cui vive dopo l’ ennesimo esilio, quello da Corinto).

Il palazzo di Creonte, nel film, è rappresentato da oscuri sotterranei, che richiamano la lunga galleria di Acamante, il consigliere del re, nella mia messa in scena               

La sceneggiatura del film di von Triers è di Dreyer. Anche qui Medea uccide i figli, impiccandoli in aperta campagna.

Molto incisiva la lunghissima cavalcata di Giasone, alla fine della quale trova l’orrendo spettacolo dei figli appesi agli alberi. 

Chiedo quasi sempre ai miei attori, in una fase delle prove, di immaginare la biografia del  personaggio che stanno creando. E di farlo immaginando particolari concreti, volti, luoghi, luci, odori, sensazioni, stati d’ animo.

Questo comporta, inevitabilmente, almeno in parte, una proiezioni, più o meno cosciente, delle proprie memorie emotive. Cioè un prestare al personaggio tratti della propria memoria.

Il testo ci fornisce alcuni elementi, alcuni dati, alcuni ricordi. Tocca all’ attore colmare i vuoti tra un ricordo e l’ altro… Un “gioco” semplice ed efficace.

Da questo punto di vista la scrittura della Wolf,  così vivente, così ricca, così lucida ed emozionale, offre una tessitura di ricordi, di immagini, di sguardi, estremamente preziosa per l’ attrice o l’ attore che plasmeranno il personaggio.

MEDEA: Siamo le ombre del nostro passato.  Ora vivo qui, in queste caverne nascoste fra le montagne, con un pugno di donne colche. Mi nutro di frutti selvatici, di erbe, di licheni e di coleotteri. Sole spietato d’estate, freddo d’inverno. Vivo qui spogliata di tutto, della mia terra, della famiglia. I miei figli, mio fratello, tutti morti, sono tutti morti. 

Guardo le stelle muoversi sui loro invisibili binari ma non credo più che i destini umani siano collegati al corso degli astri. O che lassù abitino esseri ai quali importi qualcosa della nostra strana esistenza... 

… Senza desideri ascolto il vuoto che mi colma.

Immagino che il racconto di Giasone avvenga sotto i resti della sua nave, ormai distrutta, poco più che uno scheletro di legno marcio, reliquia fragilissima di imprese gloriose ormai lontane.

GIASONE: Una volta che stavamo sdraiati uno accanto all' altro, Medea mi chiamò per nome, come se si accorgesse di me per la prima volta, si allontanò un pò da me per guardarmi, poi, come se avesse preso una solenne decisione, mi disse:  " Giasone, io ti mangio il cuore "...

… Qui a Corinto ogni cosa è cambiata. Creonte mi trattò come un figlio, mi spiegò che la mia impresa per prendere il vello d’oro era stata un imbroglio per allontanarmi dalla mia città e dal  suo trono. Mi offrì ospitalità a Corinto, mi prospettò grandi possibilità a Palazzo, buttò lì che sua figlia Glauce era in età da marito, e che il prescelto sarebbe diventato il suo erede.

Ero stanco di viaggiare, la mia terra natia mi aveva rifiutato, le porte del Palazzo di Creonte sembravano aprirsi senza resistenza davanti ai miei passi, mi sembrò che fosse la soluzione migliore.

Medea non approvava la mia scelta, diceva che ero diventato un uomo di corte, un fantoccio nelle mani di Creonte e di Acamante, l’astuto  consigliere del re.

Cominciò a curare ogni tipo di malati, a quel tempo alcuni la consideravano una benefattrice, una maga, una potente guaritrice.

Senza rendercene conto le nostre vite presero direzioni opposte.

 

 

 

 


 Gioacchino Palumbo TEATRO DEL MOLO 2  -  CATANIA (It)          | contatti |          sito by !@!