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"Io scrivo per scoprire perchè scrivo. E' un circolo vizioso: non si esegue un'azione ma si risale verso l'intenzione” Valerio Magrelli GIOACCHINO PALUMBO E IL TEATRO DEL MOLO 2 Prefazione di Giuseppe Condorelli
Il trentennio che sostanzia l’attività del Teatro del Molo 2 a Catania testimonia una presenza assai originale nella nostra città. Si tratta di un percorso davvero atipico - soprattutto se lo si confronta con altre realtà del territorio, anche siciliano - che, pur radicandosi fortemente, guarda direttamente all’Europa. In questo senso tutta l’esperienza formativa di Gioacchino Palumbo, fondatore e anima del Molo 2, è per certi versi ante litteram rispetto a quella di una nuova generazione di drammaturgia siciliana che, in questi ultimi anni, si è prepotentemente imposta all’attenzione del mondo culturale italiano. Al centro della formazione e fulcro dell'estetica drammaturgica di Gioacchino Palumbo c'è infatti la rivoluzione del “teatro povero” di Jerzy Grotowski, ovvero il teatro in sé, pensato nei suoi aspetti specifici e costitutivi, privo di ogni elemento scenografico e decorativo che pone piuttosto l'attenzione sul rapporto attore-spettatore. Ed è proprio il rapporto tra la formazione e l’impegno sulle scene a caratterizzare i quasi tre decenni del Teatro del Molo 2, sostenuti da alcune scelte costanti: l’attenzione alla parola, la ripresa del mito, la rilettura del mondo contemporaneo attraverso l’occhio del passato. Gioacchino Palumbo inaugura questo teatro-laboratorio dopo anni fecondi di relazioni e di viaggi: dalla frequenza al Dams, appena fondato a Bologna da Umberto Eco, dalle lezioni di Baldi, di Costa, di Ferrero e Ruffini, di Squarzina e di Giuliano Scabia - alcuni di loro non solo studiosi ma impegnati in prima persona sulle scene - fino alla rivelazione nel 1975, di Apocalipsis cum figuris di Jerzy Grotowksi, cui in quell’anno, la Biennale di Venezia dedicava una sezione. Gioacchino Palumbo è tra i fortunati che nell’incanto notturno dell’isoletta di S. Giacomo, in mezzo alla laguna, assistono ad una vera e propria folgorazione. E’ questo incontro a permettere a Gioacchino Palumbo di passare dall’interesse per il cinema a quello per il teatro e, nello specifico, per le tecniche dinamiche di derivazioni orientali che il regista polacco utilizzava nel training dell’attore e che avevano anche stimolato, per altri versi, lo stesso Palumbo nel corso di un lungo viaggio di esplorazione, durato un anno, in Oriente. Comincia così un percorso straordinario: diversi seminari con il Teatro laboratorio diretto da Grotowski in Italia e in Europa, dal 1975 al 1982, esperienze formative in compagnie con persone provenienti dall’Odin Theatre, ore e ore di allenamento quotidiano per anni e anni, anche se obiettivo precipuo di Gioacchino Palumbo rimane la regia e proprio per questo, all’interno della compagnia, si occupa del lavoro drammaturgico. Fedele dunque al magistero e all’ lungo apprendistato con Grotowski, anche Gioacchino Palumbo assimila e metabolizza quella chimica dell'interazione empatica che esalta appunto nello stesso tempo chi recita e chi assiste. E' un obiettivo che si raggiunge percorrendo quella che il regista polacco definiva la via negativa, un lavoro cioè di ascesi tecnico-espressiva in grado di giungere all'azione totale e che coinvolge il corpo, la fisicità, l'istinto, il movimento, i sentimenti. L'attore insomma rivela/svela la parte più profonda del sé, raggiunge ed esplora una completezza originaria che, se da un lato pare evocare il mito platonico dell'ermafrodita del “Simposio”, dall'altro costruisce un nuova idea dello “spazio della scena”, non più camera delle meraviglie, luogo privilegiato di effetti scenici e della sapienza registica, piuttosto luogo rinnovato e condiviso per il rito della rappresentazione. Lo spettatore diventa così “testimone”, la scena si fa architettura di uno spazio continuamente ri/pensato e ri/contestualizzato. (: all'attore si sostituisce l'attuante. Viene così negato lo spazio abissale tra l'atto interpretativo e quello propriamente estetico, dello sguardo: soggetto, osservatore e (so)oggetto osservato - la rappresentazione - coincidono. Il “teatro povero” diventa teatro-comunicazione. Di conseguenza anche Palumbo, con Il Molo 2, propone un teatro fortemente interiorizzato: non solo un semplice spettacolo. Gioacchino Palumbo crede infatti in un teatro “essenziale”. Un teatro cioè nel quale il rispetto della partitura drammaturgica, la discrezione dell'intervento registico, la sostanziale nudità della scena diventano elementi irrinunciabili se non costitutivi. Le fonti d'ispirazione di Grotowski, cui si rifà Palumbo, sono gli esercizi ritmici di Dullin, gli studi di Delsarte sulle reazioni, il metodo Stanislavskij, l'allenamento bio-meccanico di Mejerchol'd, le tecniche orientali, le proposte visionarie di Artaud. L’azione scenica, il progetto drammaturgico, l’intervento registico, l’azione degli attori diventano elementi di una sacra rappresentazione: basti pensare alla disposizione assai particolare del pubblico durante le performance di Grotowski. Lo “spettacolo”, allora, sembra scaturire non solo dall’incontro con i testi ma con una serie di esperienze che concorrono a diventare elementi della preparazione. Si tratta, in parte, anche di un complesso lavoro di studio sul territorio, un approccio etno-antropologico che rimandano ad esperienze che hanno visto la presenza di Gioacchino Palumbo impegnato in molte parti d’Europa, comunque mai dimentico delle sue radici siciliane. Il Molo 2 riflette da sempre questa idea di teatro così come la riflette la stessa condizione isolana: “l’arretratezza economica, la posizione defilata rispetto ai processi della modernità fanno sì che in queste aree si conservino intatte delle antiche tecniche espressive che altrove, semmai, si fossero sviluppate, non sarebbero in alcun modo sopravvissute, soprattutto la cultura siciliana”[1]. E in questa Catania il Teatro del Molo 2 continua ad agire in senso più largo: attraverso i seminari, gli studi drammatici, i laboratori, gli spettacoli veri e propri, gli interventi nei quartieri: anzi il confronto con territori non omologati alla cultura teatrale, insieme all’attività permanente dei laboratori - non sempre destinati a diventare rappresentazioni - costituiscono l’essenza stessa dell’attività drammaturgica di Gioacchino Palumbo. Così Il Molo 2 continua a veicolare nel contesto siciliano e catanese in particolare, una concezione aperta del teatro. Il mancato approdo a Catania della cultura della ricerca teatrale di cui Il Molo 2 è testimonianza va ascritto, comunque, anche a motivi di carattere socio culturale. La scelta da parte delle elite intellettuali e istituzionale – che hanno sostenuto o dovuto subire decenni di politiche culturali blindate - si è dunque condensata nella creazione di un teatro più rassicurante, meno eversivo e disturbante. Quando Gioacchino Palumbo comincia l’attività con il Teatro del Molo 2 mette insieme un gruppo allargato, fa la spola per anni fra Toscana e Sicilia dove sceglie, alla fine, di riportare le sue esperienze con Grotowski e con Barba. Eppure a fronte di questa scelta folle e coraggiosa, premiata dai risultati, molti dei suoi colleghi sono scomparsi dalle scene o costretti addirittura a cambiare attività. Appare chiaro come, in generale, le circostanze socio-politiche non siano mai state favorevoli; è vero, gli investimenti non sono mancati ma sono stati quasi sempre distribuiti senza differenziare professionisti e compagnie dilettanti: e almeno a Catania una vera e propria politica culturale - è la grande assente delle scena siciliana. Tuttavia questi limiti oggettivi non hanno impedito al Teatro del Molo 2 di radicarsi: Catania ha mostrato di possedere un humus fertile, pronto ad accogliere questo tipo di sollecitazioni e il pubblico nel corso di questi ventisette anni di resistenza ha sempre risposto favorevolmente.
L’indagine sul mito - la sua riscoperta e la sua reinterpretazione - ci pare la filigrana progettuale entro la quale inquadrare l'esperienza drammaturgica e registica di Gioacchino Palumbo per l’elaborazione di un teatro di narrazione civile. Nell’ affrontare drammaturgicamente un genere così completo si rischia il più delle volte di mettere in scena solo un esercizio stilistico o di narcisismo registico. L'approccio drammaturgico di Gioacchino Palumbo scardina ogni etimologica riproposizione poiché appare proiettata verso un fecondo lavoro di sperimentazione in cui lo spazio destinato all'improvvisazione diventa centrale, Il rapporto con il mito per Palumbo è immediato: il primo spettacolo del Molo 2 è infatti una sequenza di azioni scaturita da molte suggestioni letterarie e da un film di Theo Anghelopulos: la scrittura scenica è costituita dal montaggio di azioni. Ovviamente il teatro di Palumbo tende a privilegiare un rapporto forte con la parola così come il teatro greco. Una concezione che presuppone l’intreccio di diversi codici espressivi, che si sposa spontaneamente con il linguaggio corporeo, e di nodi tematici universali e legati alla storia dell’isola. Questo teatro, fortemente simbolico, così inteso è anche omaggio indiretto alla Sicilia: una forma di radicamento. Uno dei lavori nel quale si è maggiormente condensato lo studio sul mito è senza dubbio “Medea”. Si tratta di una Medea ieratica e solenne, lontana dalla tradizione euripidea che, nella lettura di Christa Wolf (tra gli scrittori più amati da Palumbo), attraverso “resoconti” tanto diversi se non addirittura opposti, muove dal mito per sovvertirlo alla luce del suo sguardo “rovesciato” della “seconda vista” e che si alza a cercare nello spazio politico della polis un agire diverso: più ctonio e femmineo. Quella riletta da Palumbo è una “Me-dea” maga atea, sapiente taumaturga della Colchide che non conosce la malizia e le dissimulazioni della corte; moglie che non ha mai imparato a frenare la lingua; donna emancipata che si ribella all’esercizio tutto maschile del potere, colpevole soltanto di volere “modificare la realtà” denunciando l’orrendo crimine su cui poggia il potere del re Creonte a Corinto. E se la morte di Ifinoe è nel lessico misurato del potere dei suoi funzionari un “sacrificio necessario”, per Medea diventa solo “assassinio di Stato”, vittima della sua stessa atroce “ragione”. In una forma teatrale apertamente visionaria, in cui le musiche originali di Carlo Cattano costituivano il rarefatto “continuum” dei gesti e delle parole, si susseguivano nello spazio itinerante della rappresentazione - retta, cerchio, emiciclo - i punti di vista dei personaggi. Acamante (Rosario Minardi), consigliere e sommo astronomo di corte, l’eminenza oscura che esibisce, maneggiando una piuma, la discrezione di un potere esercitato con la levità avveduta del cinismo; Giasone (Giovanni Calcagno), eroe ingenuo, un po’ fantoccio, un po’ uomo di corte, troppo poco compagno; Glauce (Rossana Bonafede), epilettica amica-nemica che ha imparato dalla Medea psichiatra e sciamana a “non ignorare le ombre” e a ricostruire nel corso del suo appassionato delirio il trauma primigenio, legato alla figura violenta del padre; Medea stessa infine (Giovanna Centamore), esiliata da coloro “che hanno imparato l’orrore” con accuse false ed innominabili - fratricida, cospiratrice, infanticida – disposta a cullare il vuoto nel quale gli imperativi del Palazzo l’hanno condannata. “Voci su Medea” è insomma una rappresentazione di grande potenza espressiva che nel suo impianto generale dimostra di aver assimilato e assorbito - nel movimento a spirale, nell’ambientazione cruda e rarefatta, nei costumi soprattutto - l’indimenticata lezione pasoliniana. Un'altra prova di ricontestualizzazione di un mito della modernità è quella che Palumbo ha offerto con “Frida. Albero della speranza sii solido”, l’atto unico prodotto dal Teatro del Molo 2, (che “Gesti Contemporanei”, la rassegna estiva del) per il Teatro Stabile di Catania, (aveva accolto nel 2001 sulle fascinose basole del Cortile Platamone.) La piece è una “lettera intima” - non certo una celebrazione della icona pop - di Frida, la bohemien messicana che, nata tre anni prima della rivoluzione di Zapata e di Villa, si riconosce - dopo il terribile incidente (un corrimano le trafisse la schiena e parte della vagina) che la trasforma in un “corpo rotto” - come una “bottiglia alla deriva, che vive nel tentativo di essere trovata e salvata”. Ed è su quella tela, ed è su quella scena che scorrono insieme la vita e le immagini dei suoi quadri, le sue lettere appassionate, mentre la voce narrante della medesima protagonista (una Donatella Finocchiaro che, diretta da Palumbo, ha piegato la sua naturale esuberanza espressiva ad una resa allusiva, quasi per sottrazione) ne ricostruisce in sottofondo le tappe più significative. Dai rapporti col padre epilettico ma valente fotografo (Bruno Torrisi) - da cui l’artista ereditò “la pazienza dell’artigiano” - alla militanza comunista; dall’amicizia con Tina Modotti, alla trascinante vitalità di Diego Rivera (Vincenzo Failla) il pittore-seduttore; dall’innamoramento al matrimonio con quest’uomo che è “tutte le combinazioni”; dal singolare e contrastato rapporto con l’ex moglie di Riviera, Lupe (Pamela Toscano) e con l’esule Lev Trockji ai dissidi con la sorella Concetta (Egle Doria); dai frequenti aborti - una mancanza che sentirà sempre lancinante - alle relazioni extraconiugali, fino a quelle lasciate trasparire con il mondo artistico non solo messicano. In forma quasi monologante la narrazione si snoda su più piani che la regia dello stesso Palumbo amalgama in un denso continuum multimediale: propriamente drammaturgico (la vicenda straordinaria di Frida); cinematografico (la dinamica analettica della sua storia); dialogico (il rapporto di Frida con la famiglia, la sorella, il compagno Diego Rivera, il mondo dell’arte). Questa donna dal “corpo spezzato” che le musiche di Nello Toscano, eseguite dal vivo dal compositore catanese accarezzano con levigata sensualità, racconta senza eccessi spettacolari (si pensi al film di Julie Taymor) soprattutto la necessità e non la scelta della pittura e della sua funzione sublimante: “Ritrassi così - è la dichiarazione fondamentale dello spettacolo - il mio ricompormi”. Il (cosiddetto) progetto del “Teatro dei Luoghi”, incentrato sul rapporto tra l’azione e il movimento degli attori e lo scenario naturale, per individuarne una “corrispondenza” emblematica, si esplica in uno spettacolo davvero unico all’interno dell’attività del Molo 2, ovvero “Il quadro delle meraviglie”, spassoso e folgorante intermezzo teatrale di Miguel de Cervantes, messo in scena in alcuni luoghi significativi della Sicilia: una masseria nei dintorni di Catania, la pescheria di Acitrezza, una piazzetta di Castelmola o la barocca via Crociferi a Catania. Qui Gioacchino Palumbo attraverso il suo intervento registico (attento anche ai dettagli dinamici) e ad una corale prova interpretativa sicura, mantiene di Cervantes la necessità ora dei sogni ora l’attrazione per l’ignoto e per la follia, ora lo svelamento delle zone d’ombra della coscienza umana, esaltati in un finale da sarabanda nel quale la comparsa di un essere gigantesc o e grottesco involve la Storia stessa verso una conclusione coloratissima: soffusa sì della leggerezza di uno scherzo, di un intermezzo appunto, ma piena dell’amara profondità di una filosofia. Il tema centrale della burla perpetrata ai danni dei saccenti e presuntuosi (già caro a Boccaccio) permette a Chanfalla di lanciarsi lungo tutta una serie di immagini spaventevoli, di comiche invenzioni: da Sansone, con una (scespiriana) mandibola d’asino in mano, alla radiosa e sculettante Salomè; dal gigantesco toro fino alla torma fantastica di topi. La parola, la struttura dell’azione e il movimento trovano probabilmente completa realizzazione con la “Fedra” di Ritsos in cui Palumbo mette in scena l’eroina “politica” e problematica del grande poeta greco piuttosto che la sfortunata protagonista euripidea: la passione della donna non è solo e soltanto per il figlio Ippolito ma anche e soprattutto quella per la “verità”: non è superfluo sottolineare che Ritsos scrive il testo durante la dittatura dei “colonnelli” e a quella allusivamente rimanda tutto il monologo. Mai, nella storia originaria, Fedra ed Ippolito sono faccia a faccia così come nel testo di Ritsos. Fedra – che Liviana Pino rende con coinvolgente sobrietà - non si rivolge ad un Ippolito muto ma pur presente, alla sua “gelida castità”, ma al suo stesso strazio, ad una passione divorante. La lunga striscia di stoffa/sangue intorno al suo corpo infatti – non segna solo il percorso da donna a madre ma allude chiaramente all’infrazione incestuosa e alle sue tragiche conseguenze - connota fortemente una scena spoglia ed essenziale, concentrata. Quel sangue - sorta di campo semantico ‘rovesciato’, in cui fare convergere ogni possibile sfumatura del corpo e della sua colpa, abita lo spazio grazie ad una mano registica essenziale e potente al tempo stesso: la lascivia sensuale di Fedra non è mai enfatica, volgare: lei, quasi simulacro della sua stessa memoria, della sua stessa ossessione, del suo insaziato tormento è certo più vicina nella sua ‘naturalità’ alla Fedra di Seneca. Nel poemetto di Ritsos il dramma non assume però solo i contorni di una hybris tanto scandalosa quanto contro natura, piuttosto di una necessità: quella di “dire la verità” a tutti i costi, di gettare quella stessa “maschera” che nell’incipit copre il volto della protagonista. Simulacro dunque: eppure non collocabile, in perenne peregrinazione dei sensi e dei sentimenti, “invasa” dalle sue stesse ombre prima che quella stessa stoffa/sangue diventi cappio di morte. Nel lungo processo di decomposizione interiore che è il monologo, le svisature del commento musicale - costruito sul sassofono trasfigurato di Jan Garbarek insieme ai timbri caotici del violoncello di Sollima - segnano i confini di una distanza, di un varco forse, che l’amaca-limen della scena chiudono. Possiamo tentare di comprendere? Possiamo condividere? Rischiarare le ombre? Forse è questo l’invito trasversale di Palumbo, di tutto il suo teatro, della sua prassi, (è quello) questo tentare di spingerci (come ha fatto Fedra, la splendida) oltre. |
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